Le sculture lignee di Aldo Ferrario

Mario Botta, 1991
Städtische Galerie Schwarzes Kloster und Augustinermuseum Freiburg im Breisgau

Il primo incontro fu inquietante. Nello studio-atelier dell’artista le sculture allineate fra i tronchi cilindrici di legno, richiamarono l’attenzione per quel loro aspetto un po’ sgraziato, per quei rapporti fuori misura rispetto alle dimensioni umane, per quelle teste ingombranti e quell’ostentare la struttura tormentata del legno, quasi fosse ancora parte legittima del tronco originario. Questo non mi impedì, incuriosito, di meglio osservarle, camminando fra loro attorno scrutandone pieghe e atteggiamenti per scoprirne le gesta a stento contenute nel cilindro virtuale.

Dopo lo stupore iniziale le sculture si proposero subito come protagoniste per la lettura-confronto che avevano sollecitato. L’attrazione che esercitavano era perentoria simile a quella dettata da figure primarie.

Non mi fu facile staccare lo sguardo insistente e l’attenzione invaghita.

Queste note sono forse proprio un modo per rincorrere un interesse che queste sculture avevano sollecitato con i loro persistenti interrogativi.

Sono figure che riconosco a me vicine, legate alle mie inquietudini, sono figure che appartengono alle mie speranze, sono segni di una comune identità.

Ritagliate con rapidi e violenti interventi di motosega e ascia direttamente dal cilindro retto del tronco, si configurano come personaggi della quotidianità, figure a noi vicine che impietosamente ci interrogano nel bel mezzo del gran correre di ogni giorno.

Il linguaggio scultoreo diretto sfugge da preoccupazioni plastiche e compositive, non vi è accenno a compiacimenti o cedimenti “formali”.

La scultura, come nelle rappresentazioni primitive, mira al messaggio attraverso un impatto violento che l’artista riesce a trasmettere con una partecipazione-commozione disarmanti. Il tronco profondamente scavato e intagliato si ripropone quasi fosse ancora parte di quella natura di albero che l’ha generato, come se un’ultima risorsa vitale lo avesse trasformato in nuove umane sembianze – anch’esse ancestrali – che narrano di uomini, di donne e bambini nei quali siamo chiamati a identificarci. Dalle basi cilindriche che disegnano il tronco originario, si innalzano nel legno figure umili bloccate in atteggiamenti quotidiani che ci osservano attraverso la loro cecità e ci interrogano con il loro silenzio.

Compressi entro il volume primario, i gesti semplici e comuni (uomo appoggiato, figura con cactus, madre con bambino) sanno proporci personaggi severi appena abbozzati nel legno, tracciati con profondi intagli dove il non finito si evidenzia con squarci e ferite ancora grondanti.

L’albero-uomo può essere anche uomo-albero, dove una sua congenita nozione del tempo ci allontana dagli affanni quotidiani per riportarci ai ritmi di natura in cui, per un meraviglioso attimo, ci è ancora possibile immergerci nel continuo infinito rincorrersi delle stagioni.

In queste sculture la rapidità del farsi e del crescere fino al momento più appropriato si equilibra con i tempi sofferti e fulminei del gesto creativo; sono figure generate da un seme di umanità che l’artista ha saputo – come fosse cosa naturale – predisporre affinché il fatto poetico si renda possibile.